Direi proprio di sì! Dopotutto siamo qui per ridere, fa bene al corpo e allo spirito, quindi qualsiasi cosa fa brodo
Va bene!
È successo qualche anno fa, quando ancora frequentavo l'autoscuola. Era un nuvoloso pomeriggio d'aprile e mi stavo preparando per uscire di casa. Indosso i primi abiti che mi capitano sotto mano e combatto con la mia chioma ribelle lanciando fendenti fieri e decisi. Sono ancora ignara del fatto che di lì a poco una serie di sfortunati eventi mi condurrà sull'orlo di una crisi di nervi. Mi reco in bagno e faccio per avvicinarmi al gabinetto: tre passi, porto le mani all'asola piuttosto stretta e faccio per sfilare l'unico, singolo, dannatissimo bottone. Che sceglie quel momento per partire alla velocità della luce e atterrare dritto dritto nella tazza con un sonoro
plop.
Dopo aver osservato la scena con gli occhi sbarrati, mi trattengo a fatica dall'imprecare e noto che il paio di jeans ha assolutamente bisogno di quel bottone: è troppo largo e minaccia di cadere. Respiro profondamente. Cosa c'è sul lavandino? Lamette, spazzolini... ma certo, le forbicine da unghie! Le prendo e, mentre con una mano mi reggo i pantaloni, con l'altra cerco di ripescare il beffardo pezzo di ferraglia, che ha pure il coraggio di scivolare un paio di volte prima di decidersi a farsi avvinghiare dal sofferente paio di forbicine ed essere tratto in salvo. Getto nel lavandino tutto il lavabile e, con un'immonda quantità di sapone e la faccia più disgustata che riusciate a immaginare, lavo tutto, mani comprese, e torno nella mia stanza. Poggio quel figlio di un nickel sulla scrivania e lo sguardo mi cade sulla sveglia: per dindirindina, non sono in ritardo, sono in ritardissimo!
Dalla foga dimentico che i pantaloni sono sul punto di cadermi e lo fanno, facendomi cascare lunga distesa. Emetto un ringhio inquietante e mi rialzo tutta dolorante, ma non mi perdo d'animo. Nell'armadio non c'è traccia di altri pantaloni, probabilmente tutti a lavare - ma proprio oggi?! - ma riesco a recuperare una cintura borchiata risalente ai primi anni della mia adolescenza. La stringo intorno alla vita a malincuore, facendo il possibile per coprirla con la maglia. Cartella, guanti, e sì, prendiamo la giacchetta nera, tanto è aprile, non farà mica così freddo! Però fuori è nuvoloso... mah, prendiamo una sciarpa per star sicuri. Ovviamente, indovinate? Sì, non c'era traccia nemmeno di quelle nell'armadio.
Imbufalita come un bisonte punzecchiato ripetutamente sul groppone da un nugolo di zanzare affamate entro a passo di carica nel salotto e domando dove siano le mie sciarpe. Ammetto che il mio tono non era proprio soave... d'accordo, somigliava paurosamente a quello di uno scaricatore di porto. La cosa manda su di giri mia madre, la quale, già nervosa di suo, comincia a gridare raggiungendo vette che avrebbero spezzato la barriera del suono. Mi unisco al concerto, stizzita da tutta la situazione, e la litigata procede per buoni dieci minuti. Ma la lancetta ticchetta. Il tempo passa. Quel tanto che basta di lucidità riesce a riprendere il controllo del mio cervello e a farmi scusare. Richiedo a mia madre dove sono le mie sciarpe e lei, più calma ma ancora arrabbiata, mi indica un angolo in cui, incastrato a forza in due bacinelle che sembrano sul punto di esplodere, giace in ostaggio circa metà del mio guardaroba. Rivolgo un'occhiata nostalgica agli altri pantaloni e afferro la prima sciarpa che mi capita.
Mi lancio fuori di casa come un ossesso e comincio a correre. Per fortuna il posto non è troppo lontano! Mi infilo la sciarpa e constato che è ancora leggermente umida - ma che sfiga - e faccio per chiudere il cinturino dell'orologio, che non vuole saperne. Faccio tre quarti di strada cercando di chiuderlo, fiatone e tutto, quando finalmente mi rendo conto che non ci riesco perché l'ho messo al contrario. Per tutto il resto del percorso insulto pesantemente il mio encefalo. Ma la sorpresa maggiore deve ancora arrivare: perché, arrivata davanti alla porta dell'autoscuola, arrabbiata e malconcia, devo fronteggiare l'amara verità. L'autoscuola oggi è chiusa.
Non so cosa mi abbia impedito di buttare giù l'intero calendario e pure qualche ignaro passante, ma fatto sta che per sfogare quell'oceano di frustrazione mi decido a fare una passeggiata. Mi sono preparata, fammi approfittare dell'occasione, no? Potrei andare in giro. Incontrare qualcuno. Prendere uno snack. Rilassarmi.
Tanto non può andare peggio di così.
E in quell'esatto istante, sono pronta a giurarvelo su qualunque pantheon esistente... ha cominciato a
piovere.
Sono tornata a casa inzaccherata, delusa, con l'umore sotto i piedi e la voglia di scomparire sotto la doccia. Ad aprirmi c'è mio fratello, al quale, affranta, racconto tutta la storia. Il responso? "Lo vedi, questo è perché sei grassa. Se ti fossi decisa a perdere peso, non avresti perso il bottone. E tutto questo non sarebbe mai accaduto".
Non ricordo come sia finita. Mio fratello racconta che mi sono chiusa nella mia stanza cercando di contattare qualcuno che potesse offrirmi conforto, e forse è così che è andata. Ma sono certa che da qualche parte, forse nei miei sogni, forse in un mondo parallelo, c'è una me incazzata come una biscia che lo ha steso con un gancio, ha conquistato il mondo e ha bandito i jeans con i bottoni dalla faccia della Terra.