Ci mancavano farina, lievito, croissants freschi, manicure.
Abbiamo tentato colorazioni ardite, con risultati carota, fata turchina; abbiamo tenuto a bada carie e tartaro, abbiamo consumato morbide tute e ridotto le pantofole a forme indefinibili.
Questa impossibilità di fare acquisti e riempire frigoriferi e dispense, ci ha ammazzato ma noi, falsi e infingardi, dicevamo: quanto mi manca mia suocera! Accidenti, neppure la vicina di casa posso abbracciare! Ma la tovaglia sul suo balcone la sbattevamo sempre.
Ora che ci hanno lasciato togliere la mascherina all’aperto, vengono fuori certe facce!
I negozi sono pieni di gente che compra televisori, dozzine di calze (ma dove le hanno consumate?), prodotti cosmetici.
I centri rifacimento unghie, se telefoni chiedendo un appuntamento, prima scoppiano a ridere poi ti chiedono di specificare il mese.
Le discariche si riempiono di materassi inguardabili e divani sfondati.
Sì, è stata dura.
Dopo questa introduzione poco seria, vi sottopongo un pezzo di Marcovaldo, opera che Italo Calvino pubblicó nel 1966.

Nel 1966 si viveva già in una società dei consumi, assillante, tentatrice, ingannatrice, continuo canto di sirena.
Ma c’era, secondo me, una differenza sostanziale: si era spinti a consumare cose materiali, solo cose materiali.
Oggi, che l’invito a consumare prodotti si è fatto più raffinato, siamo passati a consumare di tutto.
Nel senso che, tutto si deve ridurre, attraverso la consumazione,
a qualcosa da buttare, divenuto inservibile o addirittura inesistente.
Quindi, la società dei consumi in cui viviamo oggi, è assai più dannosa, subdola, malefica: ci porta a consumare cose materiali e immateriali.
Ecco come siamo arrivati alla fine di sentimenti, principi come onestá e correttezza, passione, condivisione, senso di responsabilità, mentre imperversa il diritto di disquisire su tutto, anche su quegli argomenti che non conosciamo .
Ecco, quelli che ciascuno di noi reputa diritti, non rientrano in questa centrifuga distruttiva: resistono, resistono, resistono.